Sulla morte non siamo abituati a parlare, anzi sappiamo bene quali sono le reazioni qualora si tocchi l’argomento: corna, scongiuri e via scorrendo tanto per citarne alcune. Invece si dovrebbe parlarne, perché tutti gli esseri sono rivolti verso la vita che comprende la nascita e quindi la morte che da la giusta possibilità al succedersi delle generazioni.
Perché il lutto che consegue alla morte non è la sola perdita che abbiamo vissuto o che vivremo: c’è la perdita del lavoro, la perdita della casa, della famiglia. Tutti noi abbiamo già sperimentato delle perdite. Quello che è successo a noi, succede anche agli altri.
Il lutto è una cosa normale, la perdita fa parte della vita. Ma non è né piacevole né facile.
Pensiamoci: le nostre perdite le abbiamo ‘digerite’, cioè le abbiamo elaborate? E in quanto tempo? E con quale fatica? Qualcuno ci ha aiutato o ci ha danneggiato? C’era uno specialista a consolarci?
In realtà la competenza per interagire sulla perdita è un talento che posseggono tutti, bisogna solo rendersene consapevoli. Cerchiamo allora di descrivere l’esperienza del lutto.
Lutto è una parola che deriva dal latino lugere significa ‘piangere’, intesto come manifestazione esterna conseguente alla morte. E’ dunque una perdita, un rinchiudersi in sé dopo aver perduto qualcosa o qualcuno. Diversa è invece la derivazione di cordoglio, che trae le sue origini dal latino cor dolere, ‘dolore del cuore’. Le reazioni maggiori sono la negazione, la rabbia, il patteggiamento e la rassegnazione o depressione fino al raggiungimento dell’equilibrio. Si tratta perciò di una riflessione che tocca il profondo, che ci induce a meditare sulla perdita, su quello che pensiamo di noi e del mondo dopo la morte.
In una parola tocca TUTTI.
E quindi TUTTI hanno il diritto/dovere di essere di conforto agli altri. (Luigi Colusso)
Poter vivere una parte della propria vita accanto a situazioni simili non ha paragoni. E’ come essere al centro e ci facciamo solo del bene. I veri volontari in realtà sono degli ‘egoisti’, perché sanno di portare a casa qualcosa di grandissimo. Sono vicini alle cose che davvero contano, dando la priorità alle esperienze importanti. E’ una possibilità unica che diamo alla nostra esistenza. La sensibilità aumenta. Io la vivo come una devastazione esistenziale, come un camminare in terra straniera. Non se ne capisce la lingua, non si conosce nessuno. Quando perdiamo qualcuno, perdiamo una parte di noi: non ci riconosciamo più, non riconosciamo più gli altri né il luogo in cui siamo. C’è un indurimento del cuore, la quotidianità diventa pesante. Una perdita ha anche delle ripercussioni sociali perché vi sono persone che si isolano. Ma ha anche ripercussioni morali che scatenano domande come: chi è Dio? chi sono io? Vi sono poi ripercussioni cognitive dove i pensieri cambiano e le cose non sembrano più così importanti. Poi ripercussioni fisiche, contro il cibo, contro il sonno e sessuali se si perde il partner.
Che cosa possiamo fare allora per aiutare?
Essere innanzitutto consapevoli che siamo totalmente impotenti, che non abbiamo risposte salvifiche né tecniche né possediamo qualcosa in più per aiutare l’altro. Dobbiamo essere consapevoli anche del fatto che egli chiude delle possibilità ma ne può aprire altre. Possiamo allora per esempio accompagnare, stimolare, creare contesti ma non possiamo sostituirci. Nessuno può darci qualcosa che ci restituisca questo. Se qualcuno ci dice “Coraggio, dai!” può infastidire, ma se qualcuno è invece al nostro stesso livello può accompagnarci.
Sono tante le persone in lutto che ‘la fanno finita’ e non solo in senso fisico. Dobbiamo allora entrare in un contatto reale con esse: non ho nulla da darti e allora posso creare un’alleanza, un contesto. A seconda di come intendo l’esperienza della perdita, in generale avrò anche un approccio diverso: una cosa è se intendo il lutto come un’esperienza innaturale e abnorme, un’altra se la considero un’esperienza devastante ma che fa parte della naturalità del ciclo della vita.
Non devo affidarmi a medicine e psicologi ma far diventare il lutto una parte della mia vita. I suicidi per il lutto non elaborato sono coloro che si isolano e non credono di poterlo accettare nel futuro. (Nicola Ferrari)
Un giorno è arrivata da me una donna anziana accompagnata dalla figlia. Non mi contraddisse nel colloquio ma compresi a un tratto la sua solitudine e la sua disperazione. Mi resi conto che stavo dicendo sì cose intelligenti ma che non servivano. Allora l’abbracciai, anche se non fa parte dei consigli ‘da manuale’. Cambiò immediatamente espressione e colore: “Non pensavo che mi sarebbe accaduto questo, pensavo di dover fare a boxe” mi disse.
Ho vissuto un senso di impotenza perché mi rendevo conto che quello che dicevo non serviva. Sì, si può consolare ma non servono risposte razionali. Bisogna stare in una situazione pari perché siamo tutti nello stesso destino. Possiamo dunque ‘accogliere’.
Una delle cose che addolorano dopo la perdita di una persona cara è il senso della perdita delle cose che avevo e che non ho più. Diventa infatti difficile richiamare alla mente le cose belle, perché erano legate alle persone che amiamo. Dobbiamo attraversare questo taglio, ricreando altri legami: ci vuole tempo disponibile e carico affettivo. Nessuno può sostituire una persona che ho perso ma qualcuno è magari disposto a darmi la sua amicizia. Ed è qualcuno che si interessa a me, di cui parlo e tutto questo mi fa del bene. (Luigi Colusso)
Uno che mi permette di piangere e di bestemmiare, uno che non tossisce quando me ne sto zitto, uno che non sospira, uno che mi guarda negli occhi: dare cittadinanza al dolore, ecco cosa bisogna fare. Lasciare che esso venga espresso. Quello che possiamo fare dunque non ha eguali: permettere alle persone di esprimere il loro dolore. Se resta dentro affoga e prende spazi che non sono suoi. Così la rabbia e altri sentimenti devastanti. Diventiamo persone verso le quali chi sta male può buttare fuori tutto, liberarsi, diminuire l’aggressività del dolore. Si risolve tutto e non si risolve nulla. Più stiamo male, più buttiamo fuori, più svuotiamo e più cambiamo. Condivido qualcosa con te per fare un percorso insieme. Non lo faccio perché sei più intelligente di me ma perché condividi le mie stesse esperienze. Non hai risposte, non sai, sei impotente. Non c’è nessuno che insegna o che impara. Ci sono solo persone che condividono. Si risolve allora il problema della SOLITUDINE. Quando non siamo più soli viviamo il dolore in modo diverso. Un conto è addormentarsi la sera chiedendosi chi ci ascolterà al mattino, un conto è sapere che c’è qualcuno e che è sulla stessa nostra lunghezza d’onda. (Nicola Ferrari)
Noi non possiamo affrontare tutte le piccole perdite nostre e degli altri, facendo finta di nulla e poi di fronte a una grande perdita trovare il modo di ragionarci sopra. E’ questione di vicinanza emozionale, dove ci si sente capiti, non dei minorati che hanno bisogno di assistenza.
Ognuno di noi cerca di condividere le sue perdite. Se si è in grado di affrontare le proprie e quelle altrui senza abbassare gli occhi, avrò la preparazione interiore per affrontare quelle più grandi. Non andrò in panico nella Città della Perdita dopo aver finto di vivere nella Città della Gioia.
Noi non conosciamo il mondo, conosciamo le nostre idee sul mondo e ce lo facciamo come vogliamo. Tante volte tagliamo fuori le persone, intere comunità. Possiamo farci un’idea diversa, più costruttiva, per cercare di costruire il mondo più aderente alla realtà che conosciamo.
Facciamo allenamento, insomma, e due sono gli aspetti importanti: la narrazione e i riti.
La narrazione non è lo sfogo. La narrazione è avere qualcuno che non abbassa gli occhi e non si limita a battere le spalle. E’ un inizio, ma non solo questo. Nella prima fase uno ha bisogno di buttar fuori tutte le negatività, come la disperazione, il vissuto di errori, i sensi di colpa. Se le tiene dentro, si tiene dentro anche tutta la rabbia. Lo sfogo non cambia, la narrazione sì, perché c’è la dolcezza dell’assistenza di persone vicine. Non se ne va il dolore, ma ne recupero la parte positiva e trovo un significato nell’evento, nella storia. Spiegandomi, mi rendo conto che non c’è un motivo reale di rabbia. Posso perdere anche la rabbia. Non trovo una persona che mi dice cosa fare o fa la gara su chi è stato più sfortunato, ma trovo chi condivide e mette in comune le sue esperienze, più, più, più volte perché per l’altro è importante sentirmi star meglio.
Si tratta dunque di una narrazione liberatoria che diventa rito. Piangere, rompere, arrabbiarmi in modo umano e libero, non formale. (Luigi Colusso)
La perdita viene elaborata quando diviene una parte della nostra vita: continuiamo a vivere non perché lo facciamo ‘nonostante chi’, ma perché in noi c’è un suo lascito. C’è ancora un legame con ciò che abbiamo perso. Non compensa in alcun modo, ma è quello che ci rimane. Dimenticare è uccidere una seconda volta la persona. Preservare quello che ci ha lasciato è custodire quel legame. Posso cercarlo e non ricercarlo, mantenerlo in me. C’è ancora tanto da vivere con quello che non abbiamo più, ma dobbiamo imparare a rapportarcene. I modi possono essere molti: gruppi di auto aiuto formati da persone con la stessa esperienza e con facilitatori che ci consentono lo scambio, perché l’empatia fa ritornare il gusto della vita. Oppure attraverso colloqui individuali, contatti telefonici (Sos Lutto) per la fase dello sfogo o la scrittura attraverso posta elettronica od ordinaria. Perché funziona creare contesti dove non abbiamo verità ma permette alle persone di rapportarci con l’essenza? Perché la realtà vera, psicologica, interiore è che il dolore diviene. Non è vero che stiamo male e sentiamo un dolore dentro e basta. Il nostro divenire interiore può portare a una condivisione dell’esperienza. E’ proprio il contrario di quello che ci viene detto. Andando sull’altra sponda, aiutàti, vedremo poi il fiume in un altro modo. Non vado a cercare terapie o pilloline ma vivo l’esperienza pienamente, perché diventi una parte della vita con cui posso ancora rapportarmi. Se penso a loro volendoli ancora abbracciare, ma penso anche al fatto che mi hanno insegnato molto e che da questo ho imparato molto, ho raggiunto questo obiettivo. (Nicola Ferrari)
Ho ricevuto un enorme aiuto dalle persone che ho incontrato quando è morta mia figlia. Non per il ‘dolorismo’ ma per lo stare insieme, per la condivisione. Si piange quando c’è da piangere, si ride quando c’è da ridere. Perché questa è la vita. (Luigi Colusso)
Dove trovare la forza per stare accanto alle persone che stanno male?
Abbiamo capacità limitate ad assorbire il dolore altrui, non siamo dei missionari. Ma ci sono cose che possono aiutarci: dobbiamo conoscere le cose e sapere dove si vuole arrivare. Ma soprattutto bisogna vivere bene, lontano dalle situazioni del dolore, nonostante le sventure che possono capitare. Ci riempiono. Se la mia settimana è composta dal tempo che condivido con queste persone e da una bella vita dove mi prendo cura di me (affetti, hobbies etc.), mi creo uno spazio interiore in cui starà dentro anche il dolore degli altri. Così accadrà quando ci capiterà un lutto.
L’assenza inequivocabile genera la presenza continua. (Nicola Ferrari)
Appunti raccolti dall’ultimo incontro del 13° Corso di Formazione Volontari Advar del 28 marzo 2006, presso l’Advar Assistenza domiciliare gratuita “Alberto Rizzotti”.
Il dibattito è stato condotto dal responsabile del Progetto Rimanere Insieme Luigi Colusso e dallo scrittore psicopedagogista Nicola Ferrari.
Le parole qui riportate sono state raccolte nel modo più fedele possibile da Paola Fantin, corsista divenuta volontaria Advar, per offrire spunti di riflessione a chiunque prima o poi se ne imbatterà.