Pablo Picasso, in età giovanile, ha dipinto il quadro “Scienza e Carità” che colpisce in particolare per il modo in cui preconizzava il successivo divario tra scienza e carità. La Scienza è rappresentata da un medico al capezzale di un paziente di cui si occupa, guardando dalla parte opposta, mentre la Carità, dall’altra parte del letto, si protende sul malato. Questa distinzione, di per sé, non è sbagliata: ci sono aspetti della medicina in cui è comprensibile che si distinguano ruoli e funzioni.
Quando bussiamo all’ospedale o dal nostro medico che cosa chiediamo? Di guarire. Ma intendiamo tutti la stessa cosa?
Che cos’è la cura? E’ per esempio un restitutio ad integrum, cioè ritornare come prima. Si intende la patologia come una parentesi che si chiude, è insomma l’auspicio che non possiamo toglierci mai dalla testa. Anche se sappiamo che la malattia da cui siamo affetti è incurabile non lo crediamo per davvero, c’è di sicuro per noi una soluzione. E’ comprensibile, ma come prima non ritorneremo comunque mai perché il corpo mantiene una memoria, emotiva, anche solo per la slogatura di una caviglia che si avverte quando cambia il tempo. E’ un modello che domanda poco a noi esseri umani. Chiediamo solo un esperto che sappia il fatto suo e sia aggiornato. Il coinvolgimento emotivo, l’empatia, l’ascolto, meglio se ci sono, ma a noi viene richiesto solo di fare le cose che ci vengono dette.
Statisticamente parlando, notiamo come le cose siano cambiate in questi tempi. Nell’80% dei casi non abbiamo più a che fare con malattie acute – come la polmonite, del tipo o guarisci o muori – perché abbiamo in realtà la guarigione sufficiente per continuare a vivere, per la maggior parte con la patologia che ci ha colpito. Il ruolo del medico/paziente quindi cambia. Il medico non è più colui che ci ripara la macchina guasta perché ora ci sono maggiori complicazioni, come la psiche, la dimensione sociale, le relazioni, i contesti che fanno sì che i pazienti vadano incontro a una malattia più lunga o più breve. Il dolore, per alcuni, diventa una sfida, altri lo reggono di più mentre vi sono persone che vanno letteralmente a pezzi. Tra chi cura e chi è curato emergono situazioni diverse da quelle biologiche e istintive. Le persone di fronte a un lutto, a una perdita o a una malattia grave, migliorano o peggiorano. Se erano già ‘egoisti’ lo diventano al massimo, altri cambiano orizzonti e significati, magari avendo la stessa patologia. Altri, attraverso il dolore, quasi ‘si purificano’, mentre vi sono persone che al contrario regrediscono a livelli più brutali e sono disposte a tutto pur di avere un minuto in più per vivere.
Un grande filosofo – per altro ateo e anticristiano, Nietsche – sviluppò un concetto molto interessante. Soffrì di molte malattie e morì di demenza. Ma scrisse che attraverso tutte queste tappe aveva fatto un passo verso la “Grande Salute”. Per lui, insomma, non c’era solo la salute di competenza del medico, ma una Salute che era ben al di là. Si tratta dunque di giungere a una maggiore autorealizzazione, sia come uomo che come donna, proprio attraverso la patologia che può colpirci. Quindi, Nietsche trovava nella malattia una alchimia che portava a una autorealizzazione più piena. E non si collocava da un punto di vista religioso.
Kierkegaard invece scrisse: se immaginiamo una casa, possiamo vedere uno scantinato, un pian terreno e un primo piano, abitato da inquilini suddivisi per censo. Ridicolo il caso che vede la maggior parte degli uomini che nella propria casa preferiscono vivere nel ‘sottosuolo’. Per Nietsche la malattia porta a salire dallo scantinato agli altri piani. Non c’è dunque un senso unico. Il confronto con la morte può sviluppare percorsi diversi negli esseri umani. Per esempio, c’è chi ritiene l’attaccamento alla vita, tutto, costi quel che costi. La si può definire una spiritualità? Terrena forse, un modo di essere così.
Tiziano Terzani è diventato ogni una sorta di gran maestro per chi vi si accosta, il che è davvero buffo per un uomo che tutta la vita fu un razionalista, non certo uno spiritualista. Quando scoprì di essere malato fece di tutto per guarire. Poi decise di intraprendere un percorso. Religioso? No, anche se conobbe maestri buddisti e cure alternative. Egli a un certo punto di questo nuovo e ultimo viaggio comprese che doveva guarire dal delirio da immortalità. Con la seconda ricaduta, decise di rifiutare le cure e si ritirò tranquillo per godersi il suo ultimo anno e scrivere le ultime cose che sentiva dentro di sé. Egli pensava dunque alla Grande Salute, lasciando andare la vita come un torrente che ci porta, non che vogliamo condurre. Ecco, che qui cogliamo allora l’aspetto ‘spirituale’. Ma di chi è appannaggio? Della filosofia? Della religione? O di cos’altro ancora?
Da sempre, per esempio, la filosofia solleva questioni come la colpa, la buona vita, la sopravvivenza, l’etica, dove andiamo e da dove veniamo. Ma lo stesso fa anche la religione. Alla fine della vita umana è normale che spuntino molte questioni che potremmo definire squisitamente ‘religiose’. Capita per esempio che chi era ‘tiepido’ si rifugi nella religione, che preferiamo tutti nel suo aspetto migliore, quello in cui aiuta e consola, non quello di chi esercita un potere rifilando Dio a mo’ di tappabuchi su chi sta vivendo un momento di grande debolezza. Le religioni, come conferma la diffusione della New Age, sono infatti tutt’altro che in regressione. Quando sei alla fine, hai bisogno di verità. Bisognerebbe crescere assieme prima, imparare a farlo da vecchi e malati è più difficile, ma non è troppo tardi, basta cominciare.
Questo incipit può arrivare dalla religione – intesa come colei che non colpevolizza e non da risposte prefabbricate -, ma anche dall’arte (musica, arte plastica) o dalla filosofia (riflessione sistematica su queste domande). Abbiamo bisogno di capire quali sono i bisogni umani che emergono alla fine di questa vita. Non possiamo costringere nessuno, questa crescita in umanità non la può dare nessuno, è una porta che si apre dall’interno. La malattia può aiutare ad abbassare la maniglia, qualsiasi malattia, anche le più guaribili e semplici.
Quando le due figure del quadro di Picasso non guardano in due luoghi diversi ma hanno il paziente al centro, rispondono adeguatamente al concetto di cura come vorremmo per ognuno di noi: la risposta a tutti i bisogni sapendo che alla fine della vita è molto probabile che emergano i perché della propria esistenza.
Lasciando il malato inconsapevole, precludiamo questo cammino. Se non dico nulla al paziente – non perché lui non lo voglia ma perché io l’ho deciso – è probabile che questo cammino non inizi mai. Con questo non significa che non vi siano persone che, informate, comunque non vogliano capire. Ci sono pazienti che sanno di dover morire e fanno piani per le prossime vacanze. La nostra psiche è una compresenza di isole irrazionali che non vogliono accettare quello che sappiamo davvero.
In questo ambito insomma non c’è chi può insegnare o chi può imparare. Si va, lasciandoci condurre.
(Appunti sparsi raccolti nel corso di una conferenza tenuta nel Trevigiano dal professor Spinsanti, esperto di bioetica e fondatore e direttore dell’Istituto Janus per le cure palliative.)